Il creditore, insinuato nel passivo fallimentare, può richiedere un’equa riparazione alla Corte d’Appello competente, qualora la procedura fallimentare non si sia conclusa entro sei anni.
Ormai accade spesso che i processi durino “all’infinito”: scopo della L. n. 89/2001, c.d. Legge Pinto, è quello di risarcire le parti dei processi, con durata ritenuta irragionevole, attraverso un indennizzo definito dalla stessa legge come equa riparazione.
La Legge Pinto stabilisce limiti temporali diversi a seconda del tipo di processo (civile, penale, amministrativo, tributario) e, con particolare riferimento alle procedure fallimentari, stabilisce che la durata del processo si considera ragionevole se la procedura si è conclusa in sei anni. Il termine di decorrenza dal quale calcolare la ragionevole durata della procedura fallimentare decorre dal giorno in cui il creditore ha proposto la domanda di ammissione al passivo fallimentare (Cass. civ., ord. n. 21200/2018; Cass. civ., sent. n. 28268/2018).
Decorso il termine di sei anni, il creditore può ottenere un’equa riparazione, il cui ammontare è determinato dalla legge: la somma deve essere non inferiore a 400,00 euro e non superiore a 800,00 euro per ogni anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo. In ogni caso, la misura dell’indennizzo non può essere superiore al valore del credito ammesso al passivo fallimentare.
L’ammontare così calcolato può: (i) essere aumentato fino al 20% per gli anni successivi al terzo e fino al 40% per gli anni successivi al settimo; ovvero (ii) essere ridotto del 20% quando le parti del processo presupposto sono più di dieci e fino al 40% quando queste sono più di cinquanta. La somma può altresì essere diminuita fino a un terzo in caso di integrale rigetto delle richieste della parte ricorrente nel procedimento cui la domanda di equa riparazione si riferisce.
Il creditore, quindi, assistito da un avvocato, può presentare ricorso al Presidente della Corte d’Appello del distretto in cui ha sede il giudice davanti al quale si è svolta la procedura fallimentare: le uniche spese vive da corrispondere sono: (i) la marca forfettaria per la presentazione del ricorso di euro 27,00 e (ii) le spese delle marche da bollo per il rilascio delle copie dei documenti da presentare con il ricorso.
Il ricorso deve essere proposto entro sei mesi dal passaggio in giudicato del decreto di chiusura del fallimento poiché è da tale momento che la decisione che conclude il procedimento diventa definitiva.
Il presidente della Corte d’Appello, o il magistrato designato, dovrebbe pronunciarsi sulla domanda di equa riparazione entro trenta giorni dal deposito del ricorso: in caso di accoglimento il giudice ingiunge all’amministrazione contro cui è stata proposta la domanda di pagare immediatamente la somma liquidata a titolo di equa riparazione.
Avverso tale decisione è possibile proporre opposizione davanti alla stessa Corte di Appello, nel termine perentorio di trenta giorni dalla comunicazione o notificazione del relativo provvedimento: la Corte d’Appello dovrebbe pronunciarsi con decreto entro quattro mesi dal deposito del ricorso. Quest’ultimo sarà immediatamente esecutivo e impugnabile per Cassazione.